Viaggio verso la vita
Nella mia vita ho scritto tantissimo. Di giorno, di notte, sui treni, per terra, in aereo, su pezzi di carta volanti, sui diari, sugli appunti di diritto commerciale. Ho scritto tantissimo per gli altri, un po’ meno forse per me. Negli ultimi anni ho scritto molto di viaggi e di luoghi del cuore. Ho spesso detto che scrivere è un atto liberatorio, più di una necessità. Quattro mesi fa ho però perso le parole. Non sono stata in grado di descrivere ciò che stavo vivendo, neppure con mezza frase. E così non ho scritto, ho solo aspettato che le parole arrivassero. Perché sapevo che prima o poi sarebbero arrivate. Ne arriveranno sicuramente altre, nel frattempo queste sono l’inizio del mio viaggio verso la vita. Le prime parole che ho scritto, strano a dirsi, hanno riguardato le mancanze, quelle di quest’estate; ma lo so che tutto questo vuoto è un vuoto a riempire.
Dell’estate duemiladiciotto mi sono mancate le Isole Eolie, Panarea e Salina, il pane cunzato di Alfredo, gli aperitivi al Bridge, il passito al calar della sera e il tramonto visto dal mare, le scarpinate sotto il pico del sole per raggiungere qualche caletta semi deserta, i pranzi alle 5 del pomeriggio e le cene alle 23, le giornate a nutrirsi di patatine, gelati e birre e le notti silenziose interrotte solo dal rumore dello Stromboli in piena eruzione.
I fichi raccolti dall’albero con le mani sporche e mangiati con un morso solo, incurante del po’ di buccia che resta. In generale mi è mancata tutta la frutta staccata dagli alberi, senza bisogno alcuno di lavarla, ché uno non si rende conto del senso di libertà che si prova fino a quando ti dicono che è meglio non farla quella cosa lì, di mangiare la frutta senza lavarla.
Mi sono mancati due, tre viaggi, di quelli che ti sfiancano fino all’ultima fibra del corpo, ché quando torni guardi tutto con occhi più pieni. Sono sicura che sarebbe stato così il viaggio in Israele.
I pomeriggi sdraiati sulla battigia a contare quante volte l’onda arrivava a darmi un bacio e poi scappava via, sdraiata sulla sabbia nuda, all’insegna del “pazienza se mi prendo una cistite”.
È stata l’estate più analcolica della mia vita, quella in cui mi è mancato quel bicchiere di vino in più, un mojito, la seconda birra, un bicchiere e basta, per salutare meglio il tramonto. E allora giù di cocktail analcolici, pieni di menta e intrugli vari per farli sembrare anche solo vagamente un mojito. Un’estate in cui ho temuto di essere alcolizzata nella vita di prima, quella di quattro mesi fa. Perché non puoi piangere per un cocktail in meno.
In realtà, ho poi compreso che a farmi piangere sono i divieti, quei “non puoi”, “non devi” detti a bocca piena. Frustranti per chi ha fatto della libertà di scelta e dell’indipendenza il proprio credo. Per la stessa ragione mi è mancato il pesce crudo, i crostacei, i salumi e i kg di Pesce Spada del mio Stretto.
Mi è mancata la sigaretta e la sicurezza che mi regalava quella gestualità in una sera un po’ noiosa, o il modo in cui agevolava il fluire dei miei pensieri.
Mi è mancato dormire a pancia in giù in spiaggia, sulla sabbia bollente. Il limoncello e il bergamino di mamma dopo cena e l’amaro dopo i pranzi “leggeri” del sud.
In tutte queste mancanze non mi sono fatta mancare però due cose:
camminare a piedi scalzi, ché è il modo più sincero per essere felici, quel sentire la terra sotto i piedi per ricordare a me stessa che sto vivendo.
E continuare a sentirmi figlia. Per questo mai come quest’estate mi sono lasciata avvolgere dagli abbracci di mamma, dalle sue carezze gentili e mi sono accovacciata più volte tra le sue ginocchia in una specie di regressione irrinunciabile. Come a voler fermare quel momento della vita in cui sta per compiersi un passaggio del testimone, figlie che diventano madri che diventano ancora una volta nonne. Mi sono sentita felice e grata per averla accanto adesso, nel momento più importante della mia vita.
E in questo nostro dondolio abbiamo pianto e riso, nell’estrema consapevolezza di tutte le cose che abbiamo imparato l’una dall’altra, lezioni da tramandare e infinite storie da raccontare.
È stata un’estate più cauta e meno pazzerella, in cui ho rallentato, seppur con fatica.
Un’estate in cui ho mal sopportato i vari “stai attenta”, “riposati”, “siediti”, “non ti stancare”. Io, abituata a preoccuparmi sempre per tutti, mi sono sentita in una condizione nuova. Una condizione che mi ha un po’ liberato dai sensi di colpa. Quelli della mia vita precedente. Per la prima volta ho messo davanti a tutti me stessa. E nessuno ci è rimasto male.
Un’estate in cui ho riscoperto quanto sia forte il legame tra me e il mio compagno: attento, premuroso, presente, paziente. Mi sono divertita ad osservarlo con gli altri bambini ed ho avuto la certezza che sarà un buon padre (augurandoci che gli passi un po’ d’ansia).
Un’estate in cui ho visto mio padre accarezzarmi con delicatezza e rispetto e tirare fuori una forza disarmante, nonostante tutto. Ed ho pensato che la sua eroicità sta nel continuare a farmi vedere sempre il bello della vita, sebbene sia stanco, provato, acciaccato e pieno di cicatrici sul cuore.
Ho osservato le mie amiche prendersi cura di me ed ho avuto la conferma che ho una rete di sicurezza ben salda, oserei dire indistruttibile.
È stata purtroppo un’estate in cui non sono mancate le delusioni, i piccoli dolori e assenze decisamente più pesanti di un mojito. “Sò gli ormoni che amplificano tutto” mi hanno detto, ma io nelle emozioni sono stata estrema sempre.
Mancanze e presenze del mio viaggio verso la vita
Mancanze dicevamo, colmate però da un amore immenso, che è cresciuto settimana dopo settimana, giorno dopo giorno, ora dopo ora. Una valanga di attenzioni, di abbracci, che mi hanno travolto, di lacrime di gioia, di sguardi colmi di felicità.
L’ho sentita quella felicità, l’ho toccata, seppur con delicatezza. Perché ho sempre paura di sciuparla, che vada via presto, che torni il buio, per questo in questi mesi sono rimasta sospesa. Come se mi fossi guardata dall’esterno, come se non stesse succedendo a me.
“Non ho saputo descriverla diversamente questa felicità che mi ha investito come un treno a 300 km/h. Avrei voluto abbracciarla, ma non ne sono stata capace, avrei voluto urlare al mondo questa gioia e invece l’ho lasciato fare agli altri.”
In un’estate in cui la mia pancia si è vista poco, ma al cui interno si fa strada una nuova vita.
Una vita che io non sento ancora nettamente e ad ogni ecografia è un meravigliarsi continuo: nel vedere gambe, mani e braccia muoversi all’impazzata, cuore pulsare, occhi che si aprono e si chiudono. Una vita che non sta un attimo ferma, impaziente ed esplosiva ed io ancora non riesco a crederci. Non riesco a crederci che siamo in due in un unico corpo, che tra pochi mesi a casa saremo in tre e che il cuore forse un giorno o l’altro mi esplode.
Io che impaziente come sono temevo di non essere in grado di aspettare tutto questo tempo. E invece ho capito il valore di ogni singola settimana e sto imparando a godermi questo viaggio con tutta la lentezza di cui non sono capace.
Giornalista, esperta di marketing territoriale e digital strategist. Sembrano tante qualifiche, ma sono tutte racchiuse in una professione. In parole povere mi occupo di valorizzare aziende e territori. Lo faccio principalmente mettendo assieme strategia e parole. Hai bisogno di aiuto? LAVORA CON ME